Lavorare nel digital marketing da freelance non è un qualcosa che si improvvisa, né un mestiere che si regge sulla sola creatività. È un’attività complessa, che richiede struttura, autonomia decisionale, capacità di passare con fluidità dal piano strategico all’esecuzione concreta, dalla visione d’insieme alla cura del dettaglio.
A rendere tutto più difficile è il fatto che, spesso, si è soli. Non c’è un team che ti filtra i problemi, non c’è una segretaria che ti organizza l’agenda, non c’è un’agenzia che ti protegge dal rumore. C’è solo il tuo sistema di lavoro, costruito passo dopo passo, tra tentativi, aggiustamenti e necessità di semplificare ciò che si complica da sé.
In questo scenario, i tool non sono un contorno. Sono parte dell’infrastruttura mentale che ti permette di affrontare ogni giornata con un minimo di lucidità operativa. Se funzionano, diventano invisibili e ti accompagnano. Se sono sbagliati, ti risucchiano tempo, attenzione e pazienza.
Negli anni ne ho provati molti. Alcuni li ho abbandonati dopo poche settimane, altri sono rimasti e si sono adattati al mio modo di lavorare, evolvendo con me. Quelli che seguono sono i cinque che considero oggi indispensabili. Non sono i migliori in assoluto, non sono sponsorizzati e non fanno miracoli. Ma sono strumenti concreti, stabili, adatti a chi lavora sul serio e non ha tempo da perdere in interfacce che sembrano videogiochi o flussi pensati da chi non ha mai consegnato niente a un cliente.
Indice dei contenuti
1- Plane: un project manager che lascia spazio al pensiero
Plane è il tool che uso per orchestrare tutto ciò che ha bisogno di struttura, continuità e tracciabilità nel tempo. Definirlo “project manager” è corretto, ma riduttivo. Non è solo uno spazio dove inserire task o scadenze, è il posto in cui prendo decisioni operative, visualizzo priorità, lascio sedimentare idee ancora in forma embrionale, e accompagno il passaggio da intuizione a progetto concreto.
La sua forza sta nell’equilibrio tra semplicità e profondità: non cerca di trasformare ogni processo in un flusso automatizzato, ma ti fornisce gli strumenti per costruirti un sistema che rispecchi il tuo modo di lavorare. Plane non ti forza dentro un metodo prefabbricato: ti offre uno spazio neutro, dove ogni struttura nasce da un’esigenza operativa reale, non da un formato pensato da altri.

Cosa lo rende parte integrante del mio sistema di lavoro
La prima ragione è il controllo: Plane è self-hosted, quindi lo gestisco interamente sul mio server. I dati restano miei, le performance non dipendono da terzi, e posso aggiornarlo o modificarlo secondo i miei tempi. Ma al di là di questo aspetto infrastrutturale, Plane ha caratteristiche che lo rendono, per me, superiore a molte alternative blasonate come ClickUp, Trello o Notion:
- Ha una struttura visiva pulita, che non mi distrae e che posso modellare con estrema libertà.
- La gestione delle milestone e degli sprint è integrata e non richiede moduli aggiuntivi o complicazioni.
- Esiste una wiki nativa, utile per centralizzare linee guida, brief, link utili o documentazione interna.
- Posso condividere board e pagine della wiki con link pubblici, senza obbligare collaboratori o clienti a creare un account o familiarizzare con l’interfaccia.
- È compatibile con webhook e API, quindi può essere facilmente integrato con strumenti come n8n per creare automazioni personalizzate.
In pratica, Plane non cerca di fare tutto. Ma quello che fa, lo fa bene e, soprattutto, lo lascia fare a te, secondo le tue regole.
Dove manca, e come ci convivo
Come ogni strumento snello, Plane ha anche i suoi limiti. Alcuni li tollero, altri li aggiro. Il primo è l’assenza di una vista globale dei task. Se stai gestendo più board contemporaneamente, non hai un cruscotto centralizzato che ti dica, in modo sintetico, tutto quello che è attualmente aperto, assegnato o in scadenza. Non è un problema insormontabile, ma richiede un po’ di rigore nella gestione individuale delle board.
Il secondo è la mancanza di integrazioni native con calendari esterni, come Google Calendar o Outlook. Personalmente ho risolto con una serie di automazioni via webhook, ma è evidente che non si tratta di una soluzione per tutti. Infine, l’interfaccia, per quanto pulita, non è particolarmente rifinita dal punto di vista dell’esperienza utente. Serve un minimo di abitudine per sfruttarlo davvero bene, soprattutto se ci si arriva da strumenti visivamente più rifiniti come Notion o Asana.
Quando Plane funziona davvero
Plane dà il meglio di sé quando hai una visione di medio-lungo periodo, ma non vuoi finire schiacciato da un’agenda piena di microtask. È perfetto per chi lavora in modo modulare, per chi ha bisogno di passare dal pensiero strategico all’operatività senza cambiare ambiente, per chi vuole mantenere la testa sul progetto e non sulla piattaforma.
Lo consiglio a chi non cerca l’automazione a tutti i costi, ma vuole ordine, coerenza e continuità. Se ti serve uno spazio dove i progetti non solo si archiviano, ma crescono, Plane è difficile da sostituire.
2 – CapCut: un editor che non ti rallenta quando serve solo arrivare al punto
Non tutti i contenuti richiedono lo stesso livello di profondità tecnica o complessità narrativa. Ci sono progetti che nascono per essere rifiniti, costruiti frame per frame, con attenzione a ritmo, dettagli, sfumature. E poi ci sono quei contenuti che devono solo funzionare, nel minor tempo possibile, senza perdere in coerenza e impatto. CapCut si colloca esattamente in questo secondo scenario.
È il tool che utilizzo ogni volta che devo realizzare un video verticale per i social (un reel, uno short, un contenuto snello ma riconoscibile) senza passare per la trafila completa di montaggio, correzione colore, esportazione multipla, compressione. Per tutto ciò che ha bisogno di qualità ma non di profondità, CapCut è il passaggio più rapido tra idea e pubblicazione.

Dove funziona, e perché
CapCut non è un editor video “minore”. È uno strumento pensato per ottimizzare flussi rapidi, dove il formato conta quanto il messaggio e il contesto di fruizione è limitato a pochi secondi di attenzione. Non ci monti un documentario, ma puoi costruirci un’identità visiva credibile anche su contenuti veloci. Lo uso principalmente per contenuti verticali destinati a Instagram o YouTube Shorts, spesso legati a micro-format testuali, voice-over o montaggi dinamici. In questo contesto, è uno strumento che accelera la pubblicazione senza sacrificare la coerenza.
Nel tempo ho definito una serie di template visivi personalizzati che mi permettono di lavorare per serie, mantenendo palette, tipografia, intro e outro costanti. Questo mi consente di evitare il loop decisionale su ogni singolo contenuto, riducendo al minimo la soglia d’ingresso e mantenendo una linea estetica stabile nel tempo.
L’interfaccia è pulita, intuitiva, mai dispersiva. I controlli rispondono bene, l’editing è fluido, la resa finale più che sufficiente per l’utilizzo social. In più, la versione desktop, molto più potente e versatile rispetto alla controparte mobile, consente una precisione maggiore nei tagli e nella gestione dei livelli, pur restando incredibilmente leggera rispetto a software più strutturati.
I limiti, che non lo rendono meno utile
CapCut non è pensato per sostituire un ambiente di montaggio professionale come può essere Davinci Resolve Studio. Non ha una gestione avanzata dell’audio, non offre il controllo puntuale sulla color correction, non permette un uso dettagliato di LUT personalizzati o flussi codec intermedi. Non lavora in modo non lineare su più timeline parallele, e non consente una gestione avanzata dei livelli in formato multicamera. Ma non gli si chiede questo.
Il suo punto di forza è il fatto che non si presta a essere usato male: o lo usi per ciò che è stato progettato, o lo lasci da parte. E in un’epoca in cui molti tool cercano di essere tutto per tutti, questa è quasi una forma di onestà progettuale.
Quando CapCut è la scelta migliore
Lo uso quando serve comunicare in fretta, con una forma visiva solida e un messaggio chiaro. Quando non c’è tempo per costruire, ma non si vuole scadere nella sciatteria. È perfetto per contenuti seriali, clip informative, teaser di eventi o progetti, versioni short di materiali più lunghi. È uno strumento che funziona bene se sai cosa vuoi ottenere e hai già in mente la struttura.
CapCut è un editor pensato per pubblicare, non per perdere tempo. E quando serve uscire con un contenuto in poco tempo, senza perdere in coerenza, fa esattamente ciò che deve.
3 – ChatGPT: una seconda voce per ragionare, non per delegare
Uso ChatGPT da molto prima che diventasse onnipresente nei feed, nei pitch commerciali e nei titoli clickbait. Non l’ho mai considerato un sostituto del mio lavoro, né una scorciatoia per scrivere di meno. Lo considero, piuttosto, un’interfaccia utile per confrontarmi con una logica differente, un alleato nella fase di chiarificazione, riscrittura o iterazione concettuale.
La sua funzione, nel mio flusso operativo, non è quella di “produrre contenuti”, ma di stimolare il pensiero laterale, destrutturare ciò che è troppo rigido, restituirmi una versione diversa di ciò che ho già in testa. Lo uso per forzare i miei stessi pattern di scrittura, per testare il tono di voce su segmenti specifici, per confrontare formulazioni, per costruire da zero una struttura quando la mente è intasata.
Non inizio da ChatGPT: ci arrivo. Quando so già cosa voglio dire, ma non ho ancora trovato la forma adatta per dirlo.

Cosa mi fa tenere aperta questa finestra ogni giorno
Ciò che rende ChatGPT realmente utile non è la quantità di testo che può produrre, ma la qualità delle sollecitazioni che è in grado di offrire se interrogato nel modo giusto.
Quando funziona, non ti risolve il problema, ti costringe a definirlo meglio.
Lo uso in modo molto mirato:
- per sintetizzare documenti complessi,
- per ripulire una prima bozza da ciò che è ridondante,
- per riscrivere passaggi troppo piatti o prevedibili,
- per simulare un punto di vista esterno che metta in discussione le mie scelte linguistiche, narrative o strategiche.
Più che una macchina che genera testo, lo considero un acceleratore di confronto interno, una struttura con cui testare la tenuta di un’idea, la coerenza di una sequenza, la chiarezza di un’intuizione.
I limiti, e perché non mi preoccupano
ChatGPT non sa cosa sto cercando, a meno che non glielo dica con precisione. Non ha contesto, non ha cultura, non ha priorità. Se interrogato male, restituisce testo inutile o, peggio, insidiosamente banale. Se usato per delegare pensiero, genera rumore.
Ma non è questo il modo in cui lo utilizzo. I suoi limiti sono evidenti, ma non invalidano il valore dell’interazione quando viene progettata con criterio. Il punto non è “quanto è intelligente il modello”, ma quanto sei in grado di usarlo come estensione progettuale del tuo modo di ragionare. Per questo non mi affido mai al primo output. Lo uso come spazio di prova, come territorio di esplorazione: formulo, leggo, rilancio, correggo, affino. È un processo, non un risultato.
Quando ChatGPT funziona davvero
Funziona quando la testa è già accesa, ma inciampa. Quando ho già scritto la metà di un testo, ma sento che manca ritmo, pulizia, chiarezza. Quando sto definendo una sequenza narrativa o argomentativa e voglio testare un ordine alternativo. Funziona quando mi serve un interlocutore silenzioso e instancabile, capace di restituirmi il mio stesso pensiero da un’angolazione che non avevo ancora considerato.
Non mi aiuta a essere più veloce, mi aiuta a essere più lucido. E nel lavoro che faccio, è spesso la cosa che conta di più.
4 – Nextcloud: la base stabile del mio ecosistema di digital marketing
Nextcloud è la base su cui poggia tutto il mio archivio operativo. Lo uso come sistema di cloud storage self-hosted, ma sarebbe un errore limitarlo a una funzione di semplice contenitore: per me è uno spazio di lavoro distribuito, organizzato e interoperabile, dove convivono materiali attivi, documentazione di riferimento, bozze, risorse condivise e archivi visivi.
Non è tanto un’alternativa a Google Drive o Dropbox, quanto una scelta di posizionamento infrastrutturale: preferisco avere uno spazio di lavoro che posso controllare, espandere, integrare, personalizzare, senza dipendere da policy esterne o cambi di licensing improvvisi. Non si tratta solo di privacy o ideologia open source, si tratta di efficienza e continuità operativa.

Come lo uso e perché è diventato parte integrante del mio flusso
All’interno di Nextcloud gestisco gli asset che richiedono ordine, accessibilità e tracciabilità. Parliamo di archivi fotografici e video in alta risoluzione, documentazione di progetto, materiali da condividere con clienti o collaboratori, backup critici, bozze in evoluzione e contenuti strategici di medio-lungo periodo.
Utilizzo Calendar per la pianificazione interna e la sincronizzazione degli impegni, ma anche come nodo centrale per un sistema di automazioni più esteso: grazie alla compatibilità con CalDAV, unita all’integrazione via webhook e alla flessibilità di n8n, riesco a sincronizzare automaticamente i task da Nextcloud verso Plane, mantenendo una coerenza operativa che si riflette anche sui miei dispositivi Apple. Ogni attività aggiornata si riflette in tempo reale su iPhone e Mac, senza doppioni, senza copia-incolla, senza plugin invasivi.
Parallelamente, invece di affidarmi a servizi come WeTransfer, utilizzo la funzione nativa di condivisione tramite link esterno, che mi permette di inviare file di grandi dimensioni senza limiti di upload, con banda piena (10 Gb/s), e con parametri di sicurezza configurabili: password, scadenze automatiche, download singolo, permessi di scrittura.
Un sistema più affidabile, più professionale e molto più coerente con il tipo di lavoro che faccio.
Una scelta tecnica, ma soprattutto progettuale
Utilizzare Nextcloud non è solo un’alternativa più sicura ai cloud commerciali: è un modo per definire in modo preciso dove passa il mio lavoro, dove si conserva e come si muove. Significa costruirsi un’infrastruttura che non ha bisogno di visibilità o branding, perché funziona con continuità e si integra esattamente dove serve.
In un sistema in cui ogni tool deve contribuire a tenere insieme strategia, operatività e controllo, Nextcloud occupa una posizione chiara: è ciò che mi permette di lavorare su contenuti complessi senza delegare nulla di critico a strutture esterne. Non ha bisogno di fare altro.
E per come lavoro io, questo è tutto ciò che conta.
5 – Mattermost: comunicazione interna, notifiche operative e collaborazione, sotto controllo
In un ecosistema di lavoro distribuito, in cui i progetti si muovono tra task manager, archivi, contenuti e consegne, la comunicazione non può restare slegata dal sistema. Deve essere fluida, accessibile, documentata, ma soprattutto deve integrarsi con le azioni, non limitarsi a inseguirle.
È per questo che uso Mattermost, non come alternativa a Slack, ma come componente infrastrutturale del mio ambiente operativo, completamente self-hosted e pienamente integrato con il resto della mia architettura.
Lo utilizzo quotidianamente sia per il lavoro in team che per la comunicazione con i clienti, in modo mirato, essenziale, senza rumore. Ogni canale ha una funzione chiara: project-specific, cliente-specific o legato a flussi trasversali.
Nessuna dispersione, nessun gruppo generalista. Solo spazi di scambio pensati per produrre orientamento, non chiacchiera.

Quando la notifica non è un fastidio, ma un trigger funzionale
Il punto di forza di Mattermost, nel mio sistema, è la sua capacità di ricevere segnali e restituirli in forma utile. Grazie all’integrazione con Plane (via n8n), ogni modifica rilevante ai task strategici o operativi genera una notifica diretta in uno o più canali, in base al contesto.
Non si tratta di “avvisi” da silenziare, ma di input filtrati, pertinenti, che mantengono aggiornati i membri del team o i referenti del cliente su ciò che cambia davvero. È un livello di informazione che non richiede supervisione continua, ma permette un controllo di processo distribuito, senza caricare una sola persona della sorveglianza costante del progetto.
Perché Mattermost e non altro
La scelta di Mattermost è prima di tutto una scelta di coerenza. Mi consente di avere un ambiente comunicativo stabile, strutturato, interamente ospitato su server miei, senza dipendere da policy esterne o da ecosistemi che impongono le loro logiche collaborative.
Ma soprattutto, è uno strumento che si adatta, che si lascia integrare, che risponde bene ai flussi che ho costruito e non pretende di sostituirli con automazioni preconfezionate o dinamiche pensate per aziende da 500 persone.
Non mi interessa la reattività fine a se stessa. Mi interessa la continuità del flusso decisionale. E Mattermost, nel mio caso, è il nodo comunicativo più efficace per mantenerla attiva.
Conclusione
Nel tempo ho capito che non mi servivano più tool, ma meno confusione. Che la produttività non dipende da quante piattaforme usi, ma da quanto bene riesci a farle dialogare tra loro. E soprattutto, che non esiste un sistema di lavoro “giusto” per tutti: esiste quello che funziona per te, per il modo in cui pensi, decidi, ti muovi dentro ai progetti.
Quelli che ho raccontato qui non sono strumenti perfetti. Sono strumenti che mi permettono di lavorare come voglio lavorare, senza spreco, senza rumore, senza dover continuamente adattare il mio metodo a logiche esterne.
Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che la coerenza non si trova nei tool. Si costruisce attorno a loro, scegliendoli con criterio, testandoli sul campo, lasciando andare quelli che non reggono e affinando quelli che funzionano.
Questo è il mio sistema. Funziona perché l’ho costruito pezzo per pezzo. E perché ogni giorno, mentre lavoro, lo metto alla prova.
